Un mestiere provvisorio
Fare la madre è un mestiere
provvisorio. Lo si è per sempre, finchè si respira col naso e con la bocca, ma
lo si fa in modi di diversi, persino in quantità che cambiano, in modalità
provvisorie. Per fortuna.
Fare la madre è stato il mio
lavoro principale negli ultimi anni. Mai l’unico, ma quello più centrale nella
mia vita. Non l’ho fatto per dovere o perché mi hanno insegnato così, non so
nemmeno se l’ho fatto bene. L’ho fatto e lo faccio come posso, come riesco,
come sono. Essere madre è parte di tutti, uomini e donne. Generare non solo col
corpo, non solo un altro essere umano, è una possibilità di ognuno di noi. Mi
sembra.
Guardo i miei figli crescere.
Sento che hanno bisogno meno dei miei abbracci, del mio corpo che consola, ma
di più mi chiedono sguardi silenziosi, scelte non sempre gradite, capacità di
ascolto, senza invadere, senza volere che le cose siano come penso siano
meglio. È un lavoraccio quello di genitore. Ci si può provare. Io trovo che sia
misteriosissimo, faticosissimo e bellissimo.
L’amore che provo come madre è
sconfinato, esagerato, incredibile, denso di tutto, del passato, del presente,
del futuro. Ma è anche vuoto. Desidera il vuoto per lasciare spazio al figlio
che nasce, che germoglia, che si fa albero. Mi hanno insegnato che c’è un modo
“giusto” di essere, un dover essere, un bisogno di proteggere e proteggersi da
ciò da cui è impossibile farlo. Ho capito che non è così. Ci sono solo strade,
modi di sentire, di vivere, di amare, di odiare, di soffrire. In una canzone
bellissima, Cristiano De Andrè scrive “quanto dolore ci vuole per capire
l’amore e quanto amore ci vuole per capire il dolore”. Ecco. Questa è la vita.
Mi sembra che essere madre, di chiunque, di
qualunque cosa, abbia a che fare
con questo amore e con questo dolore. E con la loro libertà. Della vita.
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