domenica 3 dicembre 2023

Stare nei rischi, da soli e insieme. Pensieri sparsi (e un po' biografici)sulle relazioni tra adulti e adolescenti.

Una persona a me molto cara, qualche settimana fa, mi ha detto che, in fondo, l'adolescenza è anche un rischio. Queste parole si sono mosse in me e continuano a farlo. Spesso leggo libri sulla relazione con gli adolescenti e sull'adolescenza in generale, ma mai ho trovato una frase, così semplice, in apparenza ovvia, e allo stesso tempo potente. Almeno per me. Ho due figli adolescenti, che vivono due periodi differenti di questo passaggio e nel mio lavoro incontro diversi adolescenti, che ascolto, che penso si fidino di me. 

E mi sono accorta di sentire per questo periodo della vita e di noi una curiosità grandissima. Forse perché ho a che fare con persone che ci sono immerse, forse per la mia storia, non lo so. Ma so che queste persone in trasformazione, nel caos, sulle montagne russe emotive, negli abissi della paura, immersi nel silenzio e nel disarmo sono fonte per me di scoperta, di cambiamento, di sconquasso e amore.

E ho pensato che non solo il periodo dell' adolescenza è un rischio per loro, perché non si sa come staranno con i cambiamenti del loro corpo, con i turbinii delle loro emozioni e dei loro sentimenti, con i pensieri che schizzano da tutte le parti. Rischiano di fare errori anche grandi, rischiano di fare scelte pericolose, rischiano di sperimentare senza darsi un limite, rischiano di chiudersi a questo mondo complesso e complicato, rischiano perfino di sparire. Sono rischi dell' umano, ma più forti in questo periodo di passaggio. Credo che da qui dobbiamo partire per essere attenti e accurati nello sguardo verso le ragazze e i ragazzi che incontriamo. I maggiori esperti di adolescenza, i clinici che ci lavorano, ci indicano delle vie per stare loro accanto. Parlano di ascolto, di necessità di stare con la diversità dell' altro, di lavoro sulle nostre aspettative di adulti, di tolleranza dell' errore come esperienza formativa, di spazi di libertà e di presenza, anche silenziosa. Mi piacciono questi sguardi, mi convincono, li provo anche ad incarnare soprattutto nel mio lavoro. Ma poi come genitore spesso inciampo, "mi incastro", sono piena di dilemmi.  Credo capiti a tutti. E ha una dose di bellezza questa incertezza nelle relazioni, questo non sapere sempre che fare o questo chiedersi se dire quel sì o quel no ha senso, è utile, è "giusto". Ma è anche stancante, perché occorre essere centrati, e spesso non lo siamo. Allora ho pensato che, in fondo, la relazione con chi è adolescente è un rischio anche per noi adulti che ce li ritroviamo accanto, che li vediamo cambiare giorno dopo giorno in modo spesso imprevisto e imprevedibile. E forse anche noi adulti possiamo prestare attenzione a questo periodo di rischio che viviamo con loro. Siamo a rischio perché anche le nostre scelte possono essere pericolose o non fare bene. Siamo a rischio perché non capiamo qual è il limite a volte, esattamente come loro. Ma il limite da dare è ancora una nostra responsabilità. Siamo a rischio perché possiamo smettere di volerli conoscere per ciò che stanno diventando, il più delle volte diversi da come avremmo voluto (e per fortuna...). Però, con loro, in queste relazioni, lo condividiamo questo rischio. E se lo viviamo con consapevolezza entrambi avremo più possibilità di essere quanto meno insieme nelle cose che accadono. Sapendo che il rischio può portare ad un pericolo, ma anche a grandi possibilità. E allora potremmo parlare di più di relazioni, che di adolescenti o di genitori di adolescenti e basta. Altrimenti ci concentriamo su l' una e l'altra parte osservando le criticità, le fatiche, ma ci dimentichiamo che "da soli non ci si salva", nel senso che è nelle relazioni che possiamo vivere i cambiamenti insieme, con più o meno vicinanza, o distanza. Provando e riprovando ogni volta, imparando a prendere le misure, rimisurando col tempo i confini e i modi di stare vicini.  Così forse possiamo diventare persone che provano a rischiare, da soli (come hanno bisogno di fare i ragazzi e le ragazze), ma un po' più insieme. 


Un grazie speciale a Domitilla Melloni.



mercoledì 16 novembre 2022

Mistero

 La vita a volte è disastro e tragedia. Ma ci sono, a volte, per i più fortunati, degli spazi, a volte grandi, a volto minuscoli, di salvezza, di possibilità di stare bene, di gioire nonostante il disastro o la fatica. Questo forse è il mistero di questa vita che da quando ero una quindicenne mi interrogava di continuo. Cercavo il senso, provavo a darmi un senso, l'ho cercato per mari e per monti. 

Siamo doppi, opposti, più parti insieme. Forse l'equilibrio è possibile anche grazie al disequilibrio e nell'alternarsi di questi movimenti. Come i bambini che iniziano a camminare: per stare in equilibrio, lo perdono e, lentamente, imparano. Forse il segreto è che siamo qui ad imparare a vivere in qualche modo, ognuno con la storia che gli è capitata, che sceglie o che non sceglie.

E se essere dei precari in cerca di equilibri nei disequilibri fosse il nostro valore, il nostro mistero, la nostra possibilità? Se fosse questa una possibile via, non per forza pesante, ma anzi leggerissima, per essere degli umani, degni abitanti di questa terra?



domenica 16 ottobre 2022

DOVE SONO GLI ADOLESCENTI?

 Tempo fa, mentre leggevo un libro di Matteo Lancini sull’adolescenza, mi ha colpito in particolare un passo in cui invitava gli adulti, non solo i terapeuti che lavorano con ragazze e ragazzi, a raggiungerli  là dove sono. E questa è la domanda che più mi in gira in testa dal quel momento. Dove sono gli adolescenti di oggi? Dove vanno i loro sogni? Dove guardano? Dove vivono i loro mondi interiori ed esteriori?

Come sempre noi adulti pensiamo di sapere molto di loro. Chi li osserva di più, chi ci lavora, ma anche i dati ci dicono di un grande malessere e disagio, esploso dopo la pandemia. La nostra società è cambiata e così cambiano anche i dolori della nostra anima, le nostre ombre e fatiche. Allora leggiamo del nichilismo che ci attanaglia, degli adolescenti angosciati dal futuro, la cui più grande trasgressione spesso è divenuta la possibilità di deludere le proprie figure di riferimento. Tutto vero, tutto vero dentro storie diversissime, ovviamente non generalizzabili. Ma nonostante le mie letture e i miei studi continuo sempre a ritornare a quella domanda: dove sono loro? Come posso avvicinarmi, non troppo, ai miei figli? Come posso tentare di trovare la misura per i confini da dare loro e il necessario bisogno di scoprire il mondo? Come posso comprendere il caos dentro di loro? E come posso fare lo stesso, in modo diversi con le ragazze e i ragazzi che incontro nella stanza d’analisi?

La risposta è che non lo so per bene. Faccio tentativi e uno di questi è stato per esempio ascoltare la loro musica. Sì perché la musica rap (a voltre trap) che molti di loro si ficcano nelle orecchie molte ore al giorno racconta di loro. Narra le loro paure, le loro ombre, i loro valori, anche quando ci sembra che per loro non conti nulla. Non è così, loro vivono mondi in cui l’amicizia, se sono abbastanza fortunati da avere la forza di provare a viverlo questo mondo, è un valore enorme. Non semplicemente la cura dell’amico, ma soprattutto la lealtà. I rapper sono o si raccontano come ragazzi di strada, che hanno sofferto, che hanno cercato soluzioni in trasgressioni, che sono sopravvissuti grazie agli amici incontrati, che odiano l’ipocrisia degli adulti, che non credono in questo mondo così com’è. Spesso raccontano un’immagine del femminile ancora, purtroppo, troppo, molto oggettuale. Le donne possono essere pericolose, da temere, da usare. Sono soprattutto uomini i cantanti rap e forse raccontano di quanto questo aspetto legato al femminile sia presente ancora come stereotipo giunto a loro dalla cultura dominante. Ci vorrà ancora molto tempo per cambiare le cose non solo fuori, ma dentro di noi. Oltre a questo però, mi sembra, quando ascolto la musica preferita di mio figlio, di vedere un po’ meglio lui. Scopro che c’è della poesia in alcuni di quei testi e imparo ad andare oltre a quello che dicevo prima: “ma che roba è quella che ascolti?”.

Per amare, per accompagnare la crescita di un figlio, per provare ad essere un adulto che prova ad ascoltare queste ragazze e ragazzi forse è necessario non avere paura di vedere i loro cambiamenti, le loro trasformazioni (io spesso ho una paura folle, ma ogni volta la paura mi permette di esercitare il coraggio e ci riprovo!), l’adulto che sta nascendo in loro che temono e che non c’è ancora. Loro non sanno bene come fare (e spesso anche noi adulti, che spesso non siamo dei buoni modelli), vedono più le ombre dell’umano, sono spaventati dalla responsabilità che noi gli diciamo che avranno e spesso scappano da questa.

Allora forse è possibile andare oltre le loro e le nostre maschere, facendo i conti con la nostra parte adolescente, provando a vedere in cosa trovano luce, in che modo agganciarli alla speranza, in che modo consentirgli di fidarsi ancora dell’umano. Una via mi pare sia reggere le loro ombre, non lasciarci schiacciare da esse. L’inabissarsi nelle ombre è il loro lavoro e stargli accanto e fare loro da sponda, da mano che tira su, a volte che ferma è il nostro. Se siamo un po’ più consapevoli delle nostre ombre, che vorrebbero figli perfetti per sentirci genitori perfetti, è possibile andare là dove sono, è possibile fare loro sentire che vale la pena diventare adulti e vivere toccandoci reciprocamente, per provare sempre e,  ancora una volta, a trasformarci.

Ecco IO di Marracash, dall’album NOI, LORO E GLI ALTRI. Questa musica ha molto da raccontare anche di chi la ascolta e noi faremmo bene a metterci ad ascoltare le loro musiche (che metaforicamente possono essere i loro videogiochi, i loro libri, le loro serie, i loro film, i loro discorsi spezzati e strampalati, i loro occhi).

 

Quante bugie che raccontiamo a noi stessi
Per sentirci al sicuro



Per sentirci protetti
O chi lo sa
Forse siamo bugiardi perché non ci hanno mai detto la verità

La verità non semplifica
La verità non si esplicita
Perché ci vuole coraggio
Per dire: "Sono un codardo"
Metti una maschera sopra la maschera che già ti metti ogni giorno
Con questa macchina e l'attico è un attimo che non sai più chi c'è sotto

In casa chissà se c'è chi si fa domande
In para sulla sua vita, sul proprio partner
Se cambieranno i cliché o resterà tutto com'è (ehi)
Se parleremo di brand mentre c'è chi non ha il bread

L'ipocrisia è l'invenzione del secolo
Svendi la tua verità per la loro bugia
E dopo basta non chiederlo
Non credo che il mondo torni più quello di prima
E nemmeno lo spero, no
E nemmeno lo spero
Ero solo davvero
La Coscienza di Zeno

Io che non sono più io
Io non mi fido di Dio
Io tutto e
Io niente
Io stasera
Ah, io sempre

Io con più niente di mio (mio)
Io e nient'altro che io (uoh)
Io, io (ah-ah)
Io, io, io (ah-ah)
Io, nah

La verità non santifica
La verità non giustifica
Tempo di farsi domande
Mettere l'ego da parte
Voglio coprirmi di cash
Sarò felice, lo sento
Ciò che direi al vecchio me:
"Confondi fine col mezzo"

Soffocati gli idealismi, condannati a non capirci
Forse è questo, forse siamo solo più egoisti
Forse un cane, niente figli
Forse niente ha senso

Censuri un film in cui eravamo razzisti
Ma eravamo razzisti
Imparare dal passato e non bruciarlo come i nazi con i libri

Cedi i dati ai social, Parasite
Tossici di ossitocina ormai
Ti convinci sia per la famiglia
Però è per te stesso come Walter White
Mondo che si fonda su ingiustizie
Per chi sta sul fondo di questo Snowpiercer
Scusa se sono profondo solo quando sono triste
Chi non finge?

Io che non sono più io
Io non mi fido di Dio
Io tutto e
Io niente
Io stasera
Ah, io sempre

Io con più niente di mio
Io e nient'altro che io
Io, io (ah-ah)
Io, io, io (ah-ah)
Io, nah

 

martedì 30 agosto 2022

 Un mestiere provvisorio

Fare la madre è un mestiere provvisorio. Lo si è per sempre, finchè si respira col naso e con la bocca, ma lo si fa in modi di diversi, persino in quantità che cambiano, in modalità provvisorie. Per fortuna.

Fare la madre è stato il mio lavoro principale negli ultimi anni. Mai l’unico, ma quello più centrale nella mia vita. Non l’ho fatto per dovere o perché mi hanno insegnato così, non so nemmeno se l’ho fatto bene. L’ho fatto e lo faccio come posso, come riesco, come sono. Essere madre è parte di tutti, uomini e donne. Generare non solo col corpo, non solo un altro essere umano, è una possibilità di ognuno di noi. Mi sembra.

Guardo i miei figli crescere. Sento che hanno bisogno meno dei miei abbracci, del mio corpo che consola, ma di più mi chiedono sguardi silenziosi, scelte non sempre gradite, capacità di ascolto, senza invadere, senza volere che le cose siano come penso siano meglio. È un lavoraccio quello di genitore. Ci si può provare. Io trovo che sia misteriosissimo, faticosissimo e bellissimo.

L’amore che provo come madre è sconfinato, esagerato, incredibile, denso di tutto, del passato, del presente, del futuro. Ma è anche vuoto. Desidera il vuoto per lasciare spazio al figlio che nasce, che germoglia, che si fa albero. Mi hanno insegnato che c’è un modo “giusto” di essere, un dover essere, un bisogno di proteggere e proteggersi da ciò da cui è impossibile farlo. Ho capito che non è così. Ci sono solo strade, modi di sentire, di vivere, di amare, di odiare, di soffrire. In una canzone bellissima, Cristiano De Andrè scrive “quanto dolore ci vuole per capire l’amore e quanto amore ci vuole per capire il dolore”. Ecco. Questa è la vita. Mi sembra che essere madre, di chiunque, di      qualunque cosa, abbia  a che fare con questo amore e con questo dolore. E con la loro libertà. Della vita.

Izziyana Suhaimi


venerdì 23 ottobre 2020

Si vive quel che si può, si può vivere quel che c’è


Qualche settimana fa, in una  giornata autunnale dal cielo luminosissimo e dalla temperatura mite, ho pensato al titolo di questo breve scritto.  Una banalità, mi sono detta. Una cosa ovvia. Eppure, spesso, io nelle banalità scopro segreti inattesi, rimango stupita di ciò che nascondono. 

Dentro le parole del titolo, non c’è solo l’idea che possiamo
stare solo con quello che ci accade, che comprende un invito a mollare la presa, il controllo, a vivere ciò che la vita ci mette di fronte, gli imprevisti di ogni giorno, le cose non programmate e previste. Ma anche le cose piccole del quotidiano, come stendere i panni al sole, o lavare i piatti, sentendo l'acqua calda che scorre sulle nostre mani. Se anche ci fosse solo questo, sarebbe già tantissimo, perché, tendenzialmente, veniamo pochissimo educati a questo, almeno nella nostra cara cultura occidentale. In noi prevalgono un antropocentrismo e un egocentrismo che spesso mi fa paura, un desiderio e un accanimento di esercitare il controllo senza limiti mai conosciuto prima, in modo così pervasivo. Ma illuderci di controllare rimane, evidentemente, un modo per stare nelle cose che ci permette di sopravvivere al modo in cui tendiamo a costruire le nostre vite.

Allora mi chiedevo, per esempio, che differenza c’è tra credere di controllare e provare a dedicarsi. Quest’ultima è una parola bellissima. Poco usata. Ha a che fare, nella sua etimologia, con il “dire con intensità”, con il consacrare, nel senso di rendere sacro, nell’intitolare qualcosa a qualcuno. Nel verbo dedicare esiste sempre l’altro. Esiste sempre la relazione. Anche nel controllo c’è la relazione, ma in modo verticale, pre-potente, verticista. Nel dedicare c’è  l’altro, che può essere anche se stessi, ma in una posizione quasi di elevazione, di importanza. Quindi mi chiedo: ma se ci dedicassimo di più a ciò che possiamo vivere, a ciò che ci è possibile, a come possiamo farlo? Non sarebbe più semplice, più vicino alla vita per come è, fatta di morte, di dolore, di bellezza, di tutto?

Eduardo Galeano scrive così: “Tuttavia, siamo stati fatti di luce, oltre che di carbonio, ossigeno, merda, morte e altre cose e in fin dei conti, siamo qui da quando la bellezza dell’universo ha avuto bisogno di essere vista da qualcuno”. E se, semplicemente, faticosamente, dovessimo-potessimo imparare a vedere la bellezza dell’universo, fatta di tutti quegli ingredienti che Galeano indica?

Ma, ritornando al segreto delle due righe inziali, la “verità”, nel senso di scoperta personale, relativa, ma vivissima in me, consiste nel fatto che quello che ci troviamo a vivere è quello che possiamo vivere. Niente di più, niente di meno. Niente di diverso. Certo che esiste, poi, la possibilità, la necessità anche di scegliere qualcosa di diverso; certo che esiste la possibilità di cambiare rotta, di
allontanarci da ciò che ci troviamo a vivere. Ma mi sembra che anche questa possibilità sia un’opzione di ciò che possiamo vivere. Ora sembra che io stia facendo della filosofia spicciola, ma in realtà per me è un pensiero molto pratico, di vita quotidiana. Se sto affrontando una difficoltà, un momento difficile, quello posso vivere. Non altro. Poi posso scegliere di evitarlo, di scappare, di penetrarlo fino in fondo, di navigarci e sguazzarci dentro. Ma quello è. Se fosse banalmente così, l’allenamento sarebbe quello di tentare di guardare come ci stiamo nelle cose, di dedicarci a questo, perché impararlo, impararci, forse, ci permetterebbe di essere degli umani che sanno sentire ancora e che fanno quello che possono. “Sarà la vita a fare il resto”. (C.Whitaker)

 



Stare nei rischi, da soli e insieme. Pensieri sparsi (e un po' biografici)sulle relazioni tra adulti e adolescenti.

Una persona a me molto cara, qualche settimana fa, mi ha detto che, in fondo, l'adolescenza è anche un rischio. Queste parole si sono mo...