venerdì 23 ottobre 2020

Si vive quel che si può, si può vivere quel che c’è


Qualche settimana fa, in una  giornata autunnale dal cielo luminosissimo e dalla temperatura mite, ho pensato al titolo di questo breve scritto.  Una banalità, mi sono detta. Una cosa ovvia. Eppure, spesso, io nelle banalità scopro segreti inattesi, rimango stupita di ciò che nascondono. 

Dentro le parole del titolo, non c’è solo l’idea che possiamo
stare solo con quello che ci accade, che comprende un invito a mollare la presa, il controllo, a vivere ciò che la vita ci mette di fronte, gli imprevisti di ogni giorno, le cose non programmate e previste. Ma anche le cose piccole del quotidiano, come stendere i panni al sole, o lavare i piatti, sentendo l'acqua calda che scorre sulle nostre mani. Se anche ci fosse solo questo, sarebbe già tantissimo, perché, tendenzialmente, veniamo pochissimo educati a questo, almeno nella nostra cara cultura occidentale. In noi prevalgono un antropocentrismo e un egocentrismo che spesso mi fa paura, un desiderio e un accanimento di esercitare il controllo senza limiti mai conosciuto prima, in modo così pervasivo. Ma illuderci di controllare rimane, evidentemente, un modo per stare nelle cose che ci permette di sopravvivere al modo in cui tendiamo a costruire le nostre vite.

Allora mi chiedevo, per esempio, che differenza c’è tra credere di controllare e provare a dedicarsi. Quest’ultima è una parola bellissima. Poco usata. Ha a che fare, nella sua etimologia, con il “dire con intensità”, con il consacrare, nel senso di rendere sacro, nell’intitolare qualcosa a qualcuno. Nel verbo dedicare esiste sempre l’altro. Esiste sempre la relazione. Anche nel controllo c’è la relazione, ma in modo verticale, pre-potente, verticista. Nel dedicare c’è  l’altro, che può essere anche se stessi, ma in una posizione quasi di elevazione, di importanza. Quindi mi chiedo: ma se ci dedicassimo di più a ciò che possiamo vivere, a ciò che ci è possibile, a come possiamo farlo? Non sarebbe più semplice, più vicino alla vita per come è, fatta di morte, di dolore, di bellezza, di tutto?

Eduardo Galeano scrive così: “Tuttavia, siamo stati fatti di luce, oltre che di carbonio, ossigeno, merda, morte e altre cose e in fin dei conti, siamo qui da quando la bellezza dell’universo ha avuto bisogno di essere vista da qualcuno”. E se, semplicemente, faticosamente, dovessimo-potessimo imparare a vedere la bellezza dell’universo, fatta di tutti quegli ingredienti che Galeano indica?

Ma, ritornando al segreto delle due righe inziali, la “verità”, nel senso di scoperta personale, relativa, ma vivissima in me, consiste nel fatto che quello che ci troviamo a vivere è quello che possiamo vivere. Niente di più, niente di meno. Niente di diverso. Certo che esiste, poi, la possibilità, la necessità anche di scegliere qualcosa di diverso; certo che esiste la possibilità di cambiare rotta, di
allontanarci da ciò che ci troviamo a vivere. Ma mi sembra che anche questa possibilità sia un’opzione di ciò che possiamo vivere. Ora sembra che io stia facendo della filosofia spicciola, ma in realtà per me è un pensiero molto pratico, di vita quotidiana. Se sto affrontando una difficoltà, un momento difficile, quello posso vivere. Non altro. Poi posso scegliere di evitarlo, di scappare, di penetrarlo fino in fondo, di navigarci e sguazzarci dentro. Ma quello è. Se fosse banalmente così, l’allenamento sarebbe quello di tentare di guardare come ci stiamo nelle cose, di dedicarci a questo, perché impararlo, impararci, forse, ci permetterebbe di essere degli umani che sanno sentire ancora e che fanno quello che possono. “Sarà la vita a fare il resto”. (C.Whitaker)

 



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